In questi ultimi anni e soprattutto dall’inizio del conflitto russo-ucraino il mondo cattolico si è accreditato come il protagonista della pace. Operazione mediatica che ha avuto un indubbio successo presso buona parte dell’opinione pubblica, soprattutto in larghi settori della sinistra. L’ultima manifestazione pubblica di rilievo tenutasi nello scorso novembre a Roma, ha fornito l’occasione per consolidare questa immagine. I più accreditati opinionisti, sottolineando la variegata composizione dei manifestanti, dai cattolici alla sinistra legalitaria, si sono trovati concordi nel dichiarare che “nella piazza, riecheggiavano gli appelli alla pace del papa”, che seppur fisicamente assente, ne è stato il vero protagonista.
Uno degli strumenti mediatici più efficaci nel trasmettere l’immagine del pacifismo cattolico è stato ed è il quotidiano Avvenire. La presenza del suo direttore nei dibattiti sulla guerra ne è la cifra concreta, così come la pubblicazione di diversi articoli di critica delle spese militari e di posizioni pacifiste intransigenti. Ma è vero tutto ciò che appare? Ci pare significativo partire proprio dalle posizioni che il quotidiano in questi anni ha sostenuto nei confronti del mondo militare, in particolare nel rapporto più diretto tra istituzione cattolica e struttura militare, ovvero l’Ordinariato Militare, meglio conosciuto come i cappellani. Avvenire nell’agosto del 2012, pubblica l’articolo “Soldati e cristiani, realtà convergenti. È sempre la carità la radice morale” a commento delle affermazioni dell’allora Ordinario Militare arcivescovo Vincenzo Pelvi tra le quali: “i militari italiani non considerano le missioni internazionali di sicurezza come esperienza di guerra, perché sono desiderosi di sostenere la democrazia a costruire la pace in luoghi martoriati”. Significative le parole riguardo alla scelta del servizio militare, inteso come il punto di arrivo dell’educazione cristiana, pertanto i soldati sono: “coloro che nelle case sono stati educati alla fede e nelle parrocchie o nei gruppi ecclesiali hanno ricevuto quel seme di speranza evangelica, che li ha portati a scegliere una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana”. Pelvi aggiungeva che la “vocazione” del soldato “nasce dal seme della carità e dall’educazione cristiana”, e che le missioni internazionali sono orientate al “bene comune”. Secondo l’Ordinario la riconciliazione completa tra soldato e cristiano avviene in quanto: “essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità. I nostri militari, se fanno prevalere le virtù sui vizi, gli ideali sulle ideologie, gli interessi comuni su quelli individuali, possono diffondere alternative di giustizia e pace, come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli”. Tali affermazioni suscitarono, all’interno del mondo cattolico, contrasti e polemiche, peraltro rese pubbliche, dall’Avvenire. Riteniamo sia significativa la replica del direttore ai “contestatori” (nel caso sacerdoti). In un corsivo dell’agosto del 2012 si affermava: “Il vostro scandalo mi dispiace e – devo ammetterlo – un po’ scandalizza anche me che pure ho imparato ad ascoltare sempre con amore e rispetto i sacerdoti che incontro sul mio cammino di uomo. Mi colpisce per i modi (ancora una volta l’avete polemicamente inviata a mezzo mondo, prima che a questo giornale) e per i toni usati. Ma soprattutto per la sentenza senza appello che emettete, reverendi lettori, nei confronti dei soldati italiani che, se caduti o rimasti feriti, proclamate «vittime» ma subito dopo dipingete come parte di un gruppo di portatori di «strage», come complici di una masnada intenta a far «carneficina» in Afghanistan… so con sicurezza che non sono i nostri soldati in Afghanistan o in Libano o nei Balcani a seminare guerra e oppressione nel mondo. Un servizio reso secondo regole ispirate ai valori della Costituzione repubblicana e, grazie a Dio, con un’umanità arricchita e resa salda dalla fede cattolica che ha plasmato la nostra cultura nazionale”. A sostegno di tali tesi venivano anche le affermazioni di Benedetto XVI “quelli che prestano servizio militare possono considerarsi “come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli”, perché se adempiono il loro rettamente, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace”. Altre polemiche nascono dalla pubblicazione di un articolo nel gennaio 2014 sui Cappellani militari, titolato “Quando i preti vanno alla guerra” dove si riportavano le parole di un anonimo cappellano-diarista dell’esercito imperiale Austro-Ungarico “vi è stato chiesto, per essere buoni cristiani, di non uccidere. Ma voi siete soldati: il vostro dovere è anche quello di dare e di ricevere la morte. Allora io nel nome del Cristo Figlio di Dio Vivo e Vero non vi chiedo di non uccidere, ma pretendo da voi qualcosa di molto più alto e difficile: di non odiare nemmeno quando combattete, di amare sinceramente il vostro nemico ch’è egli stesso vostro fratello anche nel momento in cui lo uccidete o egli vi uccide in battaglia”.
Il direttore del quotidiano anche in questa occasione respinge le contestazioni pubblicando un articolo dal titolo: “sull’utilità o meglio la necessità delle missioni internazionali per riportare la “pace” ed annullare le “sofferenze” (nel caso specifico ci si riferiva al conflitto nella Repubblica Centrafricana). Significativa la sottolineatura del ruolo dei cappellani nelle missioni considerate “umanitarie” “Non so per certo, ma sono sicuro che con i diversi contingenti militari inviati nella Repubblica Centrafricana ci saranno anche dei sacerdoti, dei cappellani militari. E da uomo e giornalista che ama la pace, e cerca di dare un contributo alla costruzione di un mondo più giusto, sono contento che ci siano. Sfido chiunque, a dimostrare che questi preti sarebbero uomini di Dio che «annunciano la pace portando la morte»”. Il direttore, in tono apertamente polemico replica al lettore “contestatore” ricordando che: “Gli slogan a effetto possono risultare molto facili, ma sono sempre ingiusti e qualche volta anche violenti e deformanti”. La difesa a tutto campo dei cappellani è una costante. L’Ordinario arcivescovo Santo Marcianò in un’intervista dell’Avvenire del 30 aprile 2016 descriveva i cappellani come “essere costruttori di pace attraverso la cura pastorale di quei militari che il Concilio stesso ha definito “ministri” della sicurezza e della pace”. Un’ultima considerazione. Avvenire è percepito come uno dei più convinti contestatori delle spese militari, diversi sono gli articoli pubblicati sul tema. Anche in questo ci pare opportuno sottolineare posizioni contraddittorie. Il direttore del quotidiano in un suo articolo del 13 luglio 2012 replica in modo articolato alle osservazioni di un docente di diritto che stigmatizzava le spese militari e teorizzava l’abolizione dell’esercito. Di seguito uno dei punti centrali della tesi del direttore: “Poi il filosofo del diritto se la prende – e non è il solo – con i «costosissimi» e «inutili» F35. Il primo aggettivo lo giudico giusto (quegli aerei costano un occhio della testa), il secondo no: gli F35 non sono «inutili» perché sono inseriti in un articolato programma di difesa della Nato di cui l’Italia fa parte e perché il loro progetto di sviluppo sta dando lavoro anche ad aziende e maestranze italiane”. Ricordiamo che la campagna contro le spese militari è da anni un cavallo di battaglia del quotidiano cattolico, ma evidentemente le spese militari hanno un limite “invalicabile”: la Nato e l’Interesse Nazionale e quello dell’apparato industriale militare.
In sintesi queste le riflessioni del mondo cattolico “ufficiale”, quello che “conta”. Sono altrettanto cosciente che una parte dei cattolici ha praticato, pagandone in prima persona le conseguenze, l’obiezione di coscienza al servizio militare. Ma è, a mio parere, altrettanto indubbio che prima o poi i cattolici obiettori e “contestatori” devono fare i conti con la loro chiesa e trarne conclusioni. Negli anni settanta e non solo, alcuni cattolici, sacerdoti soprattutto, partendo dalla loro coscienza uscirono dalla chiesa, il che non significa esprimere pareri diversi rispetto ai vescovi, ma concretamente “gettare la veste” e rientrare nel mondo civile e del libero pensiero.
Daniele Ratti